Una delle più malintese e dimenticate Mahavidya è la Dea della dell’Assenza, la vedova velata di fumo.
Le Mahavidya sono dieci forme della Dea Madre che incarnano le diverse vie spirituali. Dhumavati è la forma della Shakti che insegna attraverso la privazione, il lutto e il distacco, rivelando che anche l’assenza è un volto del divino.
Il suo è un potere che la nostra cultura prova a cancellare, perché quello di cui ha più paura: una donna che non ha più niente da perdere. Nel suo Jayanti ci rivolgiamo a questa Mahavidya, che non arriva per sistemare le cose o per fare piacere. Arriva coperta di fumo, circondata dal silenzio: non ha compagni, non ha cavalli, non ha gioielli, non sorride per farti piacere. Non è qui per essere apprezzata, è qui per mettere fine alle illusioni.
È il fumo dopo il fuoco, non si presenta all’inizio della nostra storia, si presenta alla fine. Si presenta quando il perdiamo il lavoro o il senso, quando le relazioni crollano, quando l’identità svanisce.
Dhumavati è una sorgente di saggezza e disillusione, che guarda oltre le illusioni del mondo (maya). È la Shakti post-distruzione, presente dopo che tutte le altre forze sono svanite.
È la dea di quel momento in cui niente ha più senso, eppure ancora esistiamo e nella sua presenza ci rendiamo conto che la sopravvivenza è sacra, il silenzio è sacro, e lo è anche essere incompresi.
Il rifiuto è una rivelazione. Dhumavati è sempre sola, lasciata fuori, non invitata. Ed è la verità, la società non so cosa fare di chi non può abbellire o rendere utile. Ma la sua storia non finisce qui, non ha voglia di rientrare, perché ha trovato altro in quello spazio, uno strano potere sovrano che arriva quando smetti di provare ad essere digeribile. Si tratta di un ritiro sacro: nel Tantra il ritiro non è una scappatoia, è un atto di lucidità, è la scelta di fare un passo indietro rispetto alle personalità performanti, di diventare silente non per amarezza, ma per chiarezza, per entrare in un allineamento più profondo.
Dhumavati è quella chiarezza, il rifiuto di essere disponibili per quello che drena, l’abilità di esistere senza offrire spiegazioni, è una forma di distanza sacra.
Non siamo quello che proiettano su di noi. Quando smettiamo di reagire la gente può essere disorientata, confusa o ferita, non perché gli abbiamo fatto del male, ma perché abbiamo smesso di essere prevedibili e li mettiamo in una posizione nuova, magari scomoda. Il silenzio di Dhumavati rompe lo specchio, restituisce le proiezioni alla loro fonte e ci ricorda che il loro disagio non è nostra colpa.
Ci vuole il potere di diventare scomodi, la sua divinità non si guadagna con la giovinezza l’utilità o apprezzabilità. È sacra senza ornamenti, riverita senza bisogno di essere cercata: nell’onorarla disimpariamo l’idea che il valore arriva dall’approvazione.
Dhumavati ci mostra che c’è un potere senza paura nell’essere scomodi, nella libertà di non partecipare. Ci ricorda che il potere non viene sempre dall’essere visibili attivi o concordi, ci mostra che non abbia non dobbiamo partecipare ad ogni aspettativa proiettata su di noi o a condizionamenti. Siamo autorizzati a fare un passo indietro siamo autorizzati a dire no senza spiegazioni, siamo autorizzati a non fare.
È presenza senza chiedere il permesso, perché c’è un potere sacro nello scegliere di non coinvolgersi, nel lasciare che i cicli finiscano senza salvarli e nel permettere a noi stessi di non essere capiti senza bisogno di correggere la narrativa: non dobbiamo essere accessibili, comprensibili o approvati.
Dhumavati insegna che la vera conoscenza nasce dal vuoto e dalla rinuncia. È collegata alla jnana (conoscenza) che nasce dall’esperienza del dolore e della privazione.
Nello spazio del non fare, del non reagire, del non performare, un altro tipo di potere inizia a farsi strada: la presenza senza permesso.
Invita a prendersi il tempo di digerire assimilare e incarnare questa consapevolezza. Possiamo stare nella scomodità di non essere visti, di non essere capiti, e di non essere necessari? Possiamo smettere di correre a sistemare o spiegare e onorare la calma saggezza che c’è nel restare semplicemente con quello che è?




