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I colori della morte

Quanti colori ha la morte? 

Sono passati poco più di 30 anni dal giorno in cui la morte mi ha dato la prima grande lezione che avrei impiegato anni a comprendere.

Il contesto è il 1989, ho 12 anni e sono già più grande di quel che vorrei. Mi trovo in estate con l’amica del cuore (TU sai chi sei) nel campeggio in cui ho passato tanti anni di infanzia, sul lago d’Iseo, quei campeggi che sono come un’estensione naturale della famiglia per tre mesi all’anno.
È forse il primo anno che in quel campeggio c’è solo mio padre, mia madre mia sorella sono altrove a seguito della recente (piuttosto violenta) separazione dei miei. O meglio, lui c’è di sera e di notte poi di giorno lavora, ci lascia a far finta di essere già grandi e a ospitare gli esperimenti di ribellione del gruppo di consolidati amici.
Il ragazzino più grande e più sveglio (Ha! Anche tu sai chi sei, ma sei persona *nota* e non ti nomino) sa giocare alle sedute spiritiche. 
Siamo tutti entusiasti. Ha! E noi abbiamo sempre la roulotte libera, quindi perché no? 

La tavola disegnata male con le lettere, il bicchiere, il senso di esplorazione oltre i confini…
Era tutto divertente. Non ricordo quante volte lo abbiamo fatto, ma me ne ricordo una molto bene.
È stato tutto così veloce e sfumato che sarei sciocca a pensare di ricostruire i dettagli. Ma ci sono gli elementi, il primo elemento è che devo avere chiesto alla tavola informazioni sulla mia morte.
La risposta è stata che sarei bruciata in un incidente d’auto insieme a mio padre.
Quella notte, rimaste sole io e la mia amica, non riuscivamo a dormire e non so perché abbiamo sentito dei rumori, o immaginato dei rumori, provenire dal piccolo armadio della roulotte. Lo abbiamo aperto, abbiamo visto lo specchio completamente appannato e siamo uscite dalla roulotte terrorizzate.
Nella veranda c’era una gabbia con due uccellini. La mattina dopo li abbiamo trovati entrambi morti. La sera successiva Giovanni (si, chiamavo mio padre per nome) non è tornato in campeggio. La mattina dopo l’altoparlante mi chiama al telefono e mia madre con voce secca mi dice che sta arrivando lei.
Qui i ricordi svaniscono, la mia amica mi vede testimonia che inizio a chiamare diversi pronto soccorso. E chiedo di lui, dico cose senza senso che riguardano camion e OMSA. Ricordo questo stupido dettaglio perché in quegli anni probabilmente c’erano delle calze da donna con lo stesso nome. Non ho ricordi, non so se qualcuno mi ha risposto o se ha capito cosa stavo dicendo. Poi so che è arrivata mia madre con quegli amici, compagni di partito, con cui Giovanni aveva condiviso tante battaglie. Non ho più ricordi per molto tempo, davvero non so cosa è successo in quei giorni e non so quanto ci ho messo prima di iniziare a piangere.
Da un punto di vista pratico, aveva fatto un frontale con un camion. OMSA fa anche camion. Non mi hanno fatto vedere il suo corpo. 
La mia vita negli anni successivi è stata piuttosto complessa, il tema dell’autodistruzione molto ricorrente. Dico 8 anni perché per caso, ma forse anche no, dopo 8 anni e grazie a una escursione nel mondo della numerologia, finisco al primo seminario collegato alla ricerca interiore: donne meravigliose che non conoscevo mi hanno dato gli strumenti per capire cosa era successo. Mi hanno detto con amore che non era colpa mia, che non l’avevo ucciso io, che una bambina non ha il potere di fare queste cose. E che potevo, un pezzo alla volta, cominciare a vivere.
Ho imparato presto che non sono il mio passato, ma la nostra storia ci rincorre. E si ripete, a volte con una precisione che non lascia spazio a interpretazioni.Un paio d’anni fa ho tolto questo scheletro dal mio armadio, ho fatto pulizia e ho ringraziato tutti i miei morti.
E ringrazio chi ha suonato questa campana per me: Amici di Tempo che qualche anno fa hanno pensato e condiviso uno spazio in cui l’assurdo ha senso e dignità.

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