Caro Yoga, ti scrivo

Caro Yoga, quanto tempo è passato da quando ci siamo conosciuti. Sei stato una palestra e un laboratorio, il mio tempio, il posto sicuro in cui trovare guida e incoraggiamento a crescere.

A un certo punto sei diventato parte della mia vita, e ho visto il tuo lato oscuro. Il lavoro da fare era a volte sporco e difficile, gli insegnanti non erano superuomini come credevo e le parole, la ragione, la mente non erano abbastanza. Non avrei trovato la ricetta della felicità o un gruppo di amici, stavo scoprendo uno spazio ignoto dove le mie regole non funzionavano più. Potevo finalmente essere me, senza essere quello che credevo di me, in una prospettiva liberatoria e carica di opportunità.Non ho mai desiderato di essere un’insegnante, nel senso che non ho mai preso questa decisione. Quando si è presentata questa possibilità ho accettato, fra paure e conferme è iniziata questa avventura, dalle classi vuote in posti impossibili alle lezioni private, un anno dopo l’altro fino a riempire il programma settimanale.

Continuo a studiare, tradurre libri, ho organizzato eventi yoga e contribuito a divulgare questi strumenti di ricerca, nel mio piccolo mondo. Sono una brava studente, continuo ad esserlo anche in classe. Continuo ad insegnare quello che so insieme a quello che scopro, di me e della scienza che condividiamo sul tappetino e la applico mentre lo faccio. Continuo a praticare da sola, perché la noiosa conversazione interna su quanto meglio potrei fare ogni cosa che faccio è sempre lì, sulla soglia, carica di dubbi e traboccante di ego. Vicino a lei ci sono la pressione di essere all’altezza del compito, bella, felice, con la voce profonda e il costume di scena, capace di vendersi e attirare persone, di guadagnare e promuoversi – ma non troppo, per essere coerente e non svilire la materia di studio e il processo. Ci sono le aspettative, che si confondono con quelle degli altri, e in questa nebbia si perde la propria strada, visione, motivazione. C’è l’ego che bussa alla porta, le persone che vanno e vengono, il senso della responsabilità di interagire nel profondo, l’identità che sfuma.

Non mi interessa avere ragione, ma so per certo che le vecchie regole non si applicano ai nuovi giochi. Lo Yoga non è un lavoro da promuovere e rendere redditizio, la felicità non è un prodotto in vendita e le regole del marketing sono obsolete e velenose: sfruttano e alimentano la distorta idea che qualcosa o qualcuno fuori di noi abbia la chiave della nostra vita.

Proprio uno dei veleni di cui lo Yoga è antidoto.

Non mi interessano i nomi attraenti, innovative applicazioni di una scienza antica ridotta a metodo per ottenere qualcosa. Siamo saturi di brand, divisione, competizione, anche nello Yoga, stanchi di vuoti slogan positivi, che rinforzano l’idea che siamo quello che proviamo, del superfluo dibattito sulla validità di uno stile piuttosto che un altro, che alimenta identificazione e dipendenza.

Come è dentro, così è fuori.

Si può preparare la sequenza perfetta, efficace, che induce un picco di endorfine: usciranno tutti felici, ma è in realtà un fallimento. Oppure si può entrare in classe senza altro piano che essere presente e ascoltare profondamente per unire strumenti e bisogni. Si tratta di cambiare l’orine dei fattori e ristabilire le priorità, di portare in ogni istante quel senso di unione di coerenza che sperimentiamo in classe. Lo Yoga è uno strumento che insegna ad essere se stessi, è una prospettiva più ampia e chiara in cui vivere la totalità della vita.

È un sistema per rivoluzionare la nostra realtà, non un modo per sfuggirvi.

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